domenica 8 giugno 2008

Le mie....missioni


Avevo 22 anni la prima volta che andai a Bagdad.


Capello corto, cotonato, occhiale nero ( tornato di moda di recente). Trucco un po’ pesante con riga sugli occhi e palpebra superiore con spesso strato di ombretto azzurro.


Insomma un orrore, ma allora si usava e io mi vedevo carina anche conciata a quel modo.


Ricordo ancora che quando dissi a mio padre che dovevo partire, da sola e primo viaggio in aereo, lui mi rispose:” Cosa ci vai a fare a Bagdad?” ma non con la curiosità di chiedermi cosa avrei fatto di bello, quali sarebbero state le mie mansioni, ma proprio con la domanda implicita di chi si chiedeva chi me lo faceva fare ad andare fin là.


Dico questo per rendere chiaro il tipo di mio padre, per rendere ancor meglio il suo pensiero su tutto quello che si discostava dalla routine quotidiana.

Ricordo ancora che avevo un bellissimo cappotto marrone doppiopetto comprato alla Facis (qualcuno si ricorda ancora il negozio della Facis di Torino?), con collo di finta pelliccia di foca, bellissimo.

Allora ero ancora magrolina e facevo la mia sporca figura anche unita alla giovane età.


In quell’occasione dovevo portare, insieme ai miei bagagli, un pezzo di ricambio che serviva per far funzionare un meccanismo sullo scavo, ma non chiedetemi quale fosse.


Era stato imballato in un cubo di legno pesantissimo, e all’arrivo all’aereoporto di Bagdad, che era in città, feci impazzire di curiosità gli ottusi funzionari della dogana perché alla richiesta di informazioni su cosa contenesse quella scatola di legno anziché rispondere con il mio inglese approssimativo, ma il loro lo era ancora di più, che era una ruota dentata risposi che era un “dish with fingers” e loro si arrovellarono al pensiero di un piatto con le dita.


Ma non fu l’unica prodezza verbale che mi capitò di dire.


Arrivati in città mi colpì l’odore che aleggiava nell’aria e, quando lo sento, ricordo ancora che per me quello era il “profumo” di Bagdad.


L’odore di gasolio.


La casa della missione era una villetta situata in una zona denominata Karradat Màriam vicino alla quale sorgeva, giusto all’altro lato della strada, la chiesa cattolica dove tutte le domeniche sera si celebrava la messa.


La villetta, con giardino, era a due piani con al pian terreno i locali di rappresentanza e studio, sala da pranzo, biblioteca, cucina e al piano superiore la “zona notte e la sala disegnatori.




A metà rampa di scala c’era il piccolo locale che avrei dovuto trasformare in gabinetto fotografico e la prima difficoltà che incontrai fu quella di trovare al suq la stoffa nera per realizzare la camera che doveva essere proprio oscura.


Lo spazio a disposizione era veramente ristretto e suddiviso un due piccoli ambienti: il primo, quello in cui si accedeva direttamente dalle scale, era quello destinato all’essiccamento delle foto che avveniva grazie ad una vecchia rotativa spedita da Torino che andava a criceti tento era lenta e da un essiccatore per pellicole, mentre nell’altro locale, la camera oscura vera e propria, era attrezzata con un ingranditore, 2 bromografi per la stampa a contatto dei negativi, lavandino con piano d’appoggio per le vaschette delle soluzioni fotografiche e armadietti pensili che fungevano da dispensa per il materiale fotografico.


C’era anche un filtro per l’acqua veramente indispensabile, altrimenti tutte le impurità, come ad esempio la sabbia, si sarebbe depositata sulle pellicole.


Cito per ultimo, ma non meno importante, l'esistenza di un condizionatore ingovernabile che andava a palla tanto che, quando uscivo dal mio antro, mi sembrava di andare dal frigo al forno.


La missione all’epoca era piuttosto sparuta e cioè composta da pochi elementi, ma col passare degli anni si sarebbe arricchita di altri membri: i cosiddetti “esperti".



In testa c’era il nostro direttore, allora poco più che quarantenne, tre giovani laureati , il geometra per i rilievi sullo scavo, il restauratore ed io.


Il personale di servizio era costituito da un cuoco, perennemente terrorizzato dal direttore che gli urlava, in un inglese che assolutamente non capiva, che quello che cucinava faceva schifo, un giardiniere Gheorghis, suo figlio Gibrail (loro erano una dinastia completamente destinata al servizio presso le case degli stranieri), la donna delle pulizie che si occupava anche della lavanderia ed un enorme autista di nome Koshaba che era capace di mangiarsi durante il tragitto Bagdad-scavi (un’ora di percorrenza) i cetrioli con tutta la buccia che riempivano completamente il cruscotto della land Rover passo lungo, tanto per dare un’idea delle dimensioni del mezzo.


Il mio lavoro consisteva nello sviluppo e stampa dei negativi, che ogni sera andavo a recuperare dalle borse degli archeologi appena essi arrivavano dallo scavi, sporchi di polvere e affamati ,nella ripresa degli oggetti e come mi capitò di fare inseguito di molto altro ancora.


Ma… voglio lasciare ancora un po’ di curiosità!!!!!!

Ultima annotazione.


E' strano che non ci siano foto, vero?


Ma allora era più prudende girare senza macchine fotografiche!!


Per dovere d'informazione la foto che appare all'inzio del post , con mio grande struggimento e dolore pensando a come Bagdad è ora ridotta, è presa da Internet.