mercoledì 6 agosto 2008

Le mie missioni...seconda parte

Chiedo scusa per il lungo intervallo intercorso dal primo post ..

Sono sempre qui al pc ma ho prediletto l’altro blog di cucina che mi ha impegnato molto di più….

Rileggendo i commenti e ringraziando tutte le amiche che li hanno lasciati, scusandomi qui per non aver risposto, emergono due tipi di…… affermazioni (il vocabolo non è molto azzeccato probabilmente) e cioè l’ammirazione, se tale si può definire, per un lavoro che mi ha portato così lontano e il rimpianto per alcune delle mie amiche di non aver potuto realizzare il loro sogno e cioè di fare l’archeologo.

Il fascino di andare in terre lontane, di vedere emergere dal terreno polveroso reperti preziosi celati per centinaia di anni, e nel caso dell’Iraq da almeno 2 millenni, rimane intatto!!

Però pochi sanno che il lavoro dell’archeologo, e io lo posso affermare con cognizione di causa, è duro.

Intanto ci vuole una profonda conoscenza della storia e della letteratura antica: all’epoca si poteva accedere alla frequentazione delle facoltà umanistiche avendo alle spalle la maturità classica.

Lo studio del latino e greco e la conoscenza delle opere degli storici era basilare.

Ricordo che il mio direttore si era basato sulla storia di Erodoto per scegliere in quale sito archeologico andare a scavare.

Ricordo ancora un affascinante studente afgano che disperatamente studiava privatamente il greco per poter frequentare le lezioni e di più non posso essere precisa.

Poi quello studente sposò una “collega” e con lei andò a lavorare a Kabul.

In seguito ne combinò professionalmente di tutti i colori, rubando reperti e rivendendoli e collezionò anche tra gli altri insuccessi anche il naufragio del suo matrimonio….. ma questo spesso accade nei matrimoni con gli stranieri!

Intorno all’inizio degli anni’60 l’Istituto, proprio per il fascino esercitato dall’archeologia e forse proprio perché sembrava uno studio di fascia “alta” era frequentato da ragazzi appartenenti alla buona borghesia.

C’era la contessa C.di A., il conte di L. e qualche volta mi è capitato di frequentare le loro case in cui ero accolta da un maggiordomo e vi giuro che quando tornavo a casa mia beh…questa mi andava un po’ stretta!

Allora non capitava come oggi, specie nel mio ambiente, di sentire un sussurro profumato di Caleche o Chanel n. 5 che mi svelava che quell’abitino così carino che stavo appena ammirando era “UN LANVIN”!!!.

Dicevo, e ogni tanto mi perdo un po’ nei ricordi, che il lavoro dell’archeologo era ed è duro anche se ora i supporti tecnologici aiutano notevolmente il lavoro di schedatura dei reperti e la catalogazione delle immagini .

L’archeologo deve studiare sempre, scavare e pubblicare e tutti coloro che professionalmente lavorano in ambito universitario lo sanno.

Come per i medici, i ricercatori ecc, è basilare il numero degli studi che hanno pubblicato!!

Nel nostro caso specifico e dovendo lavorare all’estero era ed è importante l’organizzazione della missione.

Quindi occorre scegliere residenze cittadine ( nel nostro caso da una villetta siamo passati a tre quando il numero dei “missionari” è aumentato), reperire personale di servizio, cuoco, camerieri e cameriere, giardiniere, autisti, almeno 2 perché la località di scavo era a 60 km di distanza.ecc

All’inizio gli archeologi che tutte le mattine dovevano andare sugli scavi erano solo tre (quelli che si erano appena laureati con il nuovo direttore) e si dovevano alzare alle 5 per essere presenti sullo scavo in contemporanea all’arrivo degli operai addetti allo scavo.

In seguito il numeri di essi aumentò e si trovarono soluzioni più comode di alloggio direttamente sullo scavo.

Qui vale la pena di parlare di questo prezioso tipo di collaboratori.

Costoro erano degli operai specializzati che provenivano da un villaggio al nord dell’Iraq (e spero di non sbagliare!!) che si chiamava Kalas Shergaat e quindi loro erano ovviamente gli Shergatin.

Sapevano esattamente cosa dovevano fare, come dovevano adoperare la cazzuola, cosa si aspettavano da loro gli archeologi….

Erano preziosi insomma e spesso venivano incensati, in un caso eccessivamente, come capitò una volta per il loro capo che veniva chiamato “LA PERLA”.

Due palle così a sentire : La perla ha detto questo (in arabo ovviamente)…. La perla ha sorriso così …. Per fortuna era bravo e forse questa specie di incensamento serviva, visto che era il capo, a far funzionare meglio il gruppo.

Il pranzo, preparato dal cuoco la sera prima, era rappresentato da panini farciti con del formaggio iraqi che sembrava plastica bianca sminuzzata condita con olio e sale), probabilmente forse anche della verdura..

Devo dire che a me interessava poco in quanto io rimanevo in città quindi per me la cosa era diversa.

Ricordo ancora quando tornavano la sera verso le 17, sporchi, pieni di polvere, famelici che si piazzavano davanti al frigo in cucina sotto lo sguardo costernato del cuoco e che prelevavano tutto il commestibile e lo divoravano.

Poi doccia, cena, magari quattro chiacchiere con un bicchiere di wishey davanti e una ciotolona di pistacchi da sgranocchiare e in seguito o si scriveva a casa o si continuava a studiare e catalogare in restauro o si flirtava un po’…..

Quanti amori sono nati in missione…… compreso il mio!!!