domenica 27 aprile 2008

Tecniche di lavorazione: la mia vita dentro e fuori la camera oscura


Mio padre era meridionale, geograficamente e … mentalmente.

Non potei andare in piscina con la scuola che frequentavo perché l’istruttore era un MASCHIO.

Mio fratello che era un maschio sì invece, ma gli veniva da vomitare tutte le volte che ci doveva andare.

Devo dire che a tanti anni di distanza non riesco ancora a capire come mai mi iscrisse all’Istituto tecnico per Arti Grafiche e Fotografiche, frequentato esclusivamente da ragazzi.

Dal 1956 al ’60 l’istituto si trovava in via Sant’Ottavio proprio vicino a dove in seguito fu costruito Palazzo Nuovo.

Chi è di Torino sa a cosa mi riferisco.

L’ultimo anno fu trasferito in Via Ponchielli all’altro capo della città, ¾ d’ora di tram. Attualmente il nome dell’istituto è Bodoni.

Studiavo anche in tram e ripetevo le lezioni ad una mia amica che faceva la commessa da Vidor in Via Roma ( vendita di capi di cachemire che esiste ancora adesso).

Otto ore al giorni di lezioni, con intervallo per il pranzo.

Lezioni anche il sabato, mezza giornata.

Poi compiti ancora da fare a casa, la sera.

Teoria tanta.

Pratica poca.

Una settimana si frequentavano le lezioni di foto artistica ( ritratti con un monumento di macchina fotografica a lastre 13x18, diaframma sempre lo stesso, luci più o meno anche ). Ricordo ancora il mio professore: il Professor Riccardo Scoffone.

A me sembrava vecchissimo e ci faceva le lezioni standosene seduto su una sedia con una coperta termica sulle gambe.

Le lezioni avevano luogo nello scantinato della scuola ma non mi sembra che facesse poi così freddo.

La settimana dopo facevamo fotografia industriale: riprese varie con lastre o pellicole 9x12 cm che venivano sviluppate 15 giorni dopo.

Insomma per farla breve per vedere i risultati stampati dei nostri sforzi doveva passare un mese e mezzo.

Quando cominciai a lavorare, presso l’Istituto di Archeologia furono dolori.

Sapevo fare veramente poco.

Il mio direttore invece era un genio della fotografia e quando era a Roma stampava a colori confrontando i provini direttamente con i mosaici che aveva fotografato.

Allora lo sviluppo del colore, anche nei laboratori fotografici, avveniva per tentativi eliminando per mezzo di filtri e volta per volta, le dominanti di colore che potevano apparire sui provini.

I tempi di sviluppo duravano un’ora e la temperatura doveva essere costante: 24° esatti altrimenti i colori potevano alterarsi.

Ovviamente i laboratori avevano dei dispositivi che garantivano la temperatura costante, io dovevo farlo a mano.

Piano piano imparai, grazie al mio capo, tutte le astuzie riguardanti la fotografia

Il mio lavoro consisteva in riprese di oggetti, ovviamente reperti archeologici, riproduzioni da libri, microfilms, stampa in bianco e nero, riprese a colori e relativa stampa su carta , sviluppo delle diapositive, gigantografie su tela e su carta e tutto da sola.

Ne ho fatto veramente di tutti i colori in ogni senso.

All’inizio dovevo fare le riproduzione da libri delle fotografie che servivano per le lezioni di Archeologia Greca e Romana. Dai negativi dovevo fare la stampa su materiale trasparente, montarlo in telaietti , pulendone i vetrini, una valanga ogni volta, stampa a contatto per le schede e ingrandimenti per le dispense, in 3 copie .

Col passare degli anni i corsi aumentarono.

Si aggiunsero oltre ai corsi già citati, e ci sono tutt’ora quelli di archeologia orientale, medievale, cristiana e quelli di etruscologia.

Poi cominciarono le missioni in Iraq da ottobre a Natale e alcune volte non tornavo neanche a casa e mi fermavo fino a Pasqua.

In Missione il lavoro era di tutto riposo.

Dovevo fotografare centinaia di oggetti, a volte migliaia come nel caso delle bullae, di cui dovevo fare anche le diapositive.

Il lavoro doveva andare bene subito e non era ripetibile perché, a fine missione, dovevamo consegnare gli oggetti alle autorità iraquene .

Le diapositive venivano sviluppate in Italia e per il bianco e nero quello che non riuscivo a fare a Bagdad doveva essere completato in Italia.

Ovviamente dovevo sviluppare e stampare anche le foto di scavo e stamparle in triplice copia.

Oltre al lavoro di fotografa, durante varie missioni avevo anche l’impegno di dirigere l’andamento delle case della missione, una sorta di governante: dirigere la servitù, decidere i menù, tenere i conti ed organizzare eventuali cene di rappresentanza.

Essendo noi una missione archeologica all’estero, a volte capitava di dover invitare per cene o ricevimenti ambasciatori di altre nazioni o funzionari iraqueni con cui eravamo in rapporti di lavoro e con cui il mio capo aveva rapporti di amicizia.

Poi cominciai ad andare anche in Calabria e In Sicilia sempre per riprese oggetti, ma anche per fare riprese fotogrammetriche.

Ricordo ancora con angoscia quando fotografavo dall’alto gli scavi, con una speciale macchina adatta a questo tipo di riprese, in un cestello tipo quelli che usano gli operai dell’Enel per la riparazione del lampioni.

Feci questo tipo di riprese anche in Iraq.

Il mio direttore non volle che, durante sia il viaggio aereo di andata che di ritorno, spedissi le macchine fotografiche che erano custodite in 2 valigette di legno col resto del bagaglio.


Le dovetti portare con me in cabina: 2 scatole di legno del peso di 16 chili , una per mano e con la borsetta fra i denti.

In Iraq dovetti fare le riprese fotogrammetriche al palazzo abbasside per eccellenza: il TaK-I Kisra.

La storia e l'importanza di questo palazzo che rappresenta l'Iraq andrebbe approfondita da chi lo desiderasse andando a consultare le pagine, numerose presenti in Internet.


Ricordo ancora quando, all’ombra di una tenda e seduta per terra, toglievo le lastre impressionate dagli schiassis, le riponevo nella scatola delle lastre esposte e le sostituivo con lastre vergini.

Forse qualcuno si chiederà come lo facessi alla luce del sole anzi all’ombra di una tenda.

Usavo uno speciale manicotto nero di tela spessa che noi fotografi chiamavamo “mutanda”

In effetti assomigliava ad una mutanda e questa recava sul lato alto, diciamo di un ideale punto vita, una lunga cerniera, aperta la quale, si introduceva tutto quello che ci serviva per il cambio delle lastre: scatole di lastre nuove o contenitori vuoti da riempire o da cui prelevare le lastre vergini.

Dai due lati da cui ipoteticamente dovevano uscire le gambe si introducevano le braccia e quindi, con cautela si effettuava lo scambio.

E di questo tipo di riprese ne ho fatte veramente tante.

Quando si trattava di fare gigantografie, e questa volta nella camera oscura dell’istituto, facevo scorrere l’ingranditore su guide metalliche e proiettavo i negativi sul muro.

Il bidello mi aiutava a piazzare la carte o la tela e a fissarla con nastro adesivo poi sviluppavo queste lenzuola e questa volta da sola in vasche lunghe 2 metri.

Ancora non mi sembra vero di essere riuscita a fare tutto questo.

E le settimane, in estate, passate a fotografare le bulle che erano una sorta di gnocchetti di argilla a forma di anello che servivano per accompagnare dei documenti, ognuna delle quali poteva contenere da una a venti impronte!. Tutte da fotografare una per una. E con 2 lampade da 500 watts addosso e in una stanzetta chiusa.

Spesso il rilievo delle figure era appena percettibile ma io dovevo evidenziare al massimo ogni dettaglio.

La maggior parte delle riprese dovevano essere buone subito e con le diapositive non era possibile fare nessun ritocco.

Ricordo ancora il mio direttore che, gonfiando il petto con orgoglio, diceva ai suoi colleghi che il laboratorio fotografico era in grado di fare qualunque cosa.

Lo avrei azzannato.

Il laboratorio fotografico ero IO.

Quando durante la guerra in Iraq i ladri dopo aver razziato tutto quello che potevano nell’Istituto italo-iraqueno, radunarono nella biblioteca tutti i libri di cui era dotata per dare loro fuoco mi venne male.

Quei libri li avevo fotocopiati tutti io con una delle prime fotocopiatrici apparse sul mercato: un vero monumento.

Una buona parte di quei libri li avevo fotografati io riproducendoli dagli originali: riprodotti e stampati su carta fotografica per posta aerea per diminuirne il peso.

Ora con le nuove tecnologie è una PACCHIA.

Quando sono andata in Libano e in Giordania avevo la mia piccola adorata Canon nella borsetta e non più un trolley pieno di macchine fotografiche.

Mai più ore ed ore in camera oscura al caldo o al freddo o al tiepido come mi è capitato nella cantina di casa mia con la temperatura dei bagni a 8°. Dovevo portare assolutamente la temperatura alla giusta gradazione e ciò avveniva con l’immersione, a bagnomaria, nelle vaschette contenenti i bagni di sviluppo e di fissaggio, di pentolini contenenti acqua bollente altrimenti col fischio che riuscivo a sviluppare e fissare le stampe.

Ora fare il fotografo è più semplice con la digitale, computer e con photoshop.

Ma rimane sempre la tecnica, l’esperienza, il saper illuminare i reperti per tirare fuori tutti i dettagli.

Nessun programma di ritocco col computer lo può fare.

Almeno mi illudo.

Voglio solo dire per, concludere che quando andai in pensione in Istituto avrebbero avuto bisogno di tre persone per fare il lavoro che facevo io .

DA SOLA

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mercoledì 9 aprile 2008

Auf wiedershen Berlino!!!!!! seconda parte

Devo recitare il mea culpa.

Sono una cattiva viaggiatrice.

Vado a rimorchio, come in questo viaggio a Berlino, senza informarmi su ciò che andrò a vedere sui musei che andrò a visitare, eccezion fatta per il Pergamon.

Sono armata, più che di informazioni, della mia Canon vecchia, quasi obsoleta, ma che funziona bene.

Quando entro in un museo mi prende la fregola: fotografo a tutto spiano. Le statue nel loro complesso, poi passo ai particolari e non mi fermerei più. Senza contare le parti architettoniche. Fosse stato per me ci avrei anche passato la notte.

Mi sembra di tornare indietro nel tempo quando fotografafo le terrecotte ancora odoranti di consolidante : fronte, retro, profilo destro, sinistro, particolari del volto se necessario.

Mi dovrei dare una calmata, ma non sempre mi riesce, poi però quando scarico la digitale sono contenta, i miei ricordi non svaniranno più nel tempo.

Dopo questa lunga, doverosa introduzione, passo al racconto vero e proprio della mia avventura berlinese.

Desidero parlare del Boden Museum che abbiamo solo ammirato passandogli vicino.

Per chi non lo sapesse, mi sono finalmente informata, questo edificio dalla bellezza travolgente, maestoso e affascinante, fu costruito nel 1906 e finito di restaurare nel 2006 e portato all'attuale splendore, dopo anni di incuria.

Fa parte dell'isola dei 5 musei, fra cui il Pergamon e si estende tra il canale della Sprea e il Kupfergraben.

Sembra de racchiuda delle meraviglie. La prossima volta non mi sfuggirà di sicuro!!

Dopo aver ammirato il Boden Museum abbiamo girato a destra e, attraversato il ponte sul fiume cosa ci è apparso sul parapetto ?

Queste 4 state bronzee che ci hanno galvanizzato e che abbiamo fotografato senza alcun ritegno.

Non so chi siano o che cosa rappresentino ma le ho trovate deliziose.

Il giorno di Pasqua, sotto la neve che sembrava dei granellini di polistirolo, siamo andati in doveroso pellegrinaggio alla ricerca di oggetti strabilianti in 2 mercatini delle pulci che, a detta di Anna, sono tra i più famosi di Berlino.
Io non ho trovato nulla che mi piacesse, ho la casa stracolma di oggetti piccoli ma anche grandi frutto delle mie scorribande nei suq di Bagdad, Amman e Beyrut, ma sono stata dissuasa da ogni acquisto pensando al mio trolley che avevo fatica a chiudere partendo.

Devo fare un doveroso omaggio e ringraziamento ai maschietti che erano con noi, il padre di Anna e mio figlio, che non hanno mai e in nessuna altra occasione mostrato momenti di insofferenza, noia, fastidio o disperazione.

Sono stati ammirevoli e pazienti.

Voglio citare brevemente la visita, che non è stata breve al Museo ebraico o Judisches Musem
che vale la pena di visita con raccoglimento e attentamente in quanto molto ben fatta, curata, articolata su 3 piani e bella sia negli interni che nella realizzazione architettonica dell'esterno.

E sempre in tema di omaggio all'olocausto ci siamo recati in un pomeriggio strano con velature di nuvole, sprazzi di sole, mentre contemporaneamente nevicava, a visitare il Monumento commemorativo agli ebrei realizzato da Peter Eisenmann.

Si tratta di un'enorme spianata solcata da 2711 parallelepipedi di cemento di diverse altezze, dimensioni e inclinazioni.
Vale la pena di recarvisi e sarete pervasi come noi, sicuramente, da un'emozione strana.

Tappa obbligatoria al Chek point Charlie che indicava il punto di frontiera tra la zona americana e sovietica.
Che dire poi di quello che resta del famoso muro, decorato di graffiti, disegni un libro a cielo aperta della disperazione di decenni?




Per ultimo desidero ricordare la bellissima torre della televisione che sorgeva vicinissimo al nostro albergo.


Alta 368 metri la si vedeva da vicino o da lontano in quasi qualunque punto di Berlino ci trovassimo.

Dimenticavo!!!!!!
Sia Anna che io ,la sera prima di partire abbiamo adocchiatto dei venditori di colbacchi.

Dopo lunga contrattazione lei ne ha acquistato uno che le sta bene da morire, (lei ha la faccia da cappello)poi mi sono lasciata convincere ad acquistarne uno anche io e, contrattando ancora sul prezzo l'ho padgato ancora 5 euro di meno.
Ma il divertente era che il nostro venditore, pachistano era di Bergamo e si trovava a Berlino avendo sposato una tedesca.

Non abbiamo voluto approfondire oltre.



Ho saputo da Anna che il colbacco sarà very glamour per la stagione 2008/2009.

Ebbene sia lei che io abbiamo anticipato la moda.





Ragazzi VOGLIO TORNARCI!!!!!!!!!!!!!!!








mercoledì 2 aprile 2008

Auf wiedershen Berlino!!!!!! prima parte

Pioggia, vento, un freddo che me lo ricorderò per tutta la vita, neve a granellini che sembrava quasi polistirolo.

E noi, i magnifici cinque, bardati come se dovessimo andare al Polo Nord.

Giacche a vento, guanti da sci, calze spesse, mutande e pantaloni di lana, io, cappellino che sembravo una profuga.

Eppure abbiamo scorrazzato impavidi per 4 giorni, mai stanchi o quasi, facendo ogni tanto soste ristoratrici nei vari bar per fare rifornimento di calde bevande e mirate soste idrauliche.

Avevo quasi paura di non farcela, io che cammino poco e mi muovo quasi esclusivamente in macchina, invece ho girato, camminato, trotterellando dietro ai i miei compagni di ventura dalle 9 del mattino fino a sera tardi.

Cosa dire di Berlino senza cadere nell'ovvio?

La città è, a dir poco, sensazionale.

Grandi strade, immensi viali fiancheggiati da costruzioni dall'architettura in massima parte molto armoniosa e con facciate dipinte con colori pastellati ed estremamente gradevoli.

Il nostro tour era stato organizzato da Anna, la ragazza di mio figlio, una quindicina di giorni prima e frutto di un intero pomeriggio di lavoro e ricerca.

Aveva studiato tutti luoghi da visitare giorni per giorno, i musei, le cose divertenti come ad esempio i due mercatini delle pulci più famosi di Berlino, i vari mezzi di trasporto sia sotterranei che all'aperto e così via.

Le code di due ore e più per visitare il Pergamon e il Bundestag (?) al freddo, al vento e sotto la pioggia sono quasi dimenticate.

Voglio parlare del Pergamon che è quello che mi ha più emozionato.

Certo l'altare di Pergamo non ha bisogno di commenti, ma sono stata travolta da un'onda di emozione alla vista della Porta di Ishtar di Babilonia, la vera, unica, indimenticabile, con i colori ancora vividi , con le fiere plastiche e maestose raffigurate nei bassorilievi creati con i mattoni.



Ricordo ancora la porta di Ishtar ricostruita a Babilonia, misero tentativo, rispetto a quella originale di riproporre a coloro che la ammiravano la grandiosità del passato.
A Babilonia c'è però ancora il leone di pietra, forse troppo pesante per essere asportato e venduto.
E ancora tappeti, oggetti, vetri, modellini del complesso della città, stucchi e molto altro ancora.

Insomma chi deve ancora andare a Berlino deve considerare il Pergamon una tappa obbligatoria e non fare come quella signora, italiana, che diceva all'amica: "La parte islamica la saltiamo".
Comunque organizzazione, audio, guardaroba ecc. sono stati ottimi come pure la possibilità di fotografare.

Usciti dal Museo abbiamo fatto la sosta-ristoro presso un localino molto accogliente dove ho avuto il mio primo approccio con un enorme wurstel e patate fritte.
Io non amo molto i wurstel ma questo era decisamente un'altra cosa rispetto a quello che appare nei nostri supermercati e la birra bevuta in enormi boccali era, a dire dei miei compagni, ottima e di ottima qualità in tutti i posti dove siamo andati.

Spesso lungo le strade c'era numerose bancherelle e ....le soste erano obbligatorie.

Abbiamo fatto numerosissimi tragitti in metropolitana e devo dire che sembrava quasi di essere in un salotto con le pareti decorate in vari modi, piastrellate con soggetti vari con o con enormi quadri .
Le carrozze erano confortevoli e con comodi posti a sedere.
Quando ho poi preso la metropolitana a Milano, al rientro, mi sembrava di stare in un buco nero!!

Non voglio fare anche questa volta un romanzo a puntate e quasi mi sembra che sia passato molto tempo e non solo 8 giorni dal rientro, ma desidero elencare tutto o quasi ciò che abbiamo visto e visitato.